Puoi leggere tutti i libri che vuoi, avere le conoscenze più aggiornate, ma la psicologia dei FALSI MITI è talmente pervasiva che prima o poi ha preso per il naso anche te. Almeno una volta hai creduto che:
quando piove le ferite si sentono di più (si chiama “correlazione illusoria” e no, non supportata da dati medici);
parti e ricoveri in psichiatria aumentano nelle notti di luna piena (è la salienza delle “coincidenze memorabili”);
i geni sono tutti autistici (bias di narrazioni mediatiche sull’autismo);
usiamo solo il 10% del nostro cervello (esagerazione di una verità scientifica).
Come se non bastasse, social e giornali sono pieni di false concezioni psicologiche. Parole che, usate qua e là, corrono il rischio di diventare vere, solo perché ripetute allo sfinimento. Se ti dico “raptus” ci siamo capitз, vero?
In questa newsletter:
ti spiego quali sono le ragioni per cui ci caschiamo;
analizzo alcune “bufale” psicologiche ascoltate in questi giorni;
ti spiego perché ripetersi frasi motivazionali non serve - c’entra con la differenza fra autostima e auto-compassione;
ti regalo un protocollo clinicamente testato per aiutarti a lavorare sulle cose che pensi di te.
Prima di dare il via alle danze, però, fammi ringraziare Ester che ha scelto di sostenere economicamente questo progetto!
*Non sono in grado di modificare le quote di Substack, ma, se vuoi fare come lei, qui sotto il link per sostenere Mercoledì*
Grazie! E ti prometto: sarà tutto re-investito qui!
Perché ci caschiamo così facilmente?
Le storie più sbagliate sono quelle che pensiamo di conoscere meglio: per questo non le esaminiamo a fondo e non le mettiamo in dubbio.
Stephen Jay Gould (1996, p. 66)
Alcune spiegazioni.
Confondiamo familiarità con accuratezza: se me lo dice una persona a cui sono legatǝ o l’ho sentito dire spesso in giro, tendo a crederci. E’ il cosiddetto “effetto passarola”;
Per raggiungere uno stato desiderato in breve tempo (principio dell’economia cognitiva - già postulato da Freud - l’atteggiamento in base al quale pur di non pensare a lungo e approfonditamente facciamo di tutto, pure credere alle bufale), crediamo a tutto quello che può confermarcelo. Si chiama “bias di conferma”.
Crediamo che la realtà sia ciò che vediamo (realismo ingenuo), anche se una cosa ci capita una volta sola. Accade, così, che teniamo a mente solo le “circostanze memorabili” (quando un evento eccezionale accade in specifiche circostanze) e non i “colpi mancati” (quando l’evento, invece, in quelle stesse circostanze non si verifica).
Tendiamo a confondere causa e effetto, cose che accadono allo stesso momento ma non sono correlate e non prendiamo in considerazione altre variabili che potrebbero essere implicate.
Arriviamo a credere che ci sia collegamento fra due cose che sono accadute nello stesso momento, per caso, e ci ricamiamo su una bella correlazione illusoria. Del tipo: mio cugino è nato che c’era la luna piena = i parti aumentano in notti di luna piena.
O, ancora, crediamo nel ragionamento del POST HOC, ERGO PROPTER HOC (“Dopo di questo, perciò a causa di questo”).
Se vengo tamponato da una Ypsilon, allora tutte le volte che incontro una Ypsilon faccio gli scongiuri.
C’è poi l’euristica della rappresentatività, che ci fa credere che cose che hanno una somiglianza superficiale siano da ricondurre allo stesso comportamento e siano collegate fra di loro.

Tendiamo ad esagerare cose che hanno verità scientifica, spesso perché per qualche ragione ci piace credere a una forma di “realtà aumentata”.
Ad esempio, alcune ricerche neuropsicologiche (Fonte) hanno mostrato che non utilizziamo tutti il nostro potenziale cognitivo. Questo, però, non vuol dire che allora ne usiamo solo il 10%, come andava di moda dire qualche tempo fa, complice anche qualche saggio fintamente accurato (Questo e questo, che troviamo ancora in giro ma la cui prima edizione è del 1936).
Altrimenti non si spiegherebbe perché i neurochirurghi intervengano anche quando i danni al cervello sono “minimi”.
Lo diceva già Brad Pitt, tempo fa: ”If you hear a story too good to be true, it ain’t”.
Se, poi, vuoi sapere da dove ha preso questa frase, le voilà.
COSE CHE NON SONO PSICOLOGIA/2
1. Il Blue Monday. Sorry, non esiste.
Come ogni terzo lunedì di gennaio, anche due giorni fa è stato il turno del solito carosello di articoli e post sul Blue Monday: quel giorno in cui saremmo tuttз più tristi. Peccato che si tratti di una trovata di marketing.
Qui un articolo che lo spiega bene.
2. “Ci è o ci fa” è una questione mal posta
Il Corriere della Sera spiega che cosa si intende con questa espressione.
Si tratta di un modo di dire per indicare, non necessariamente in senso negativo, il comportamento di una persona, nel dubbio che sia un artificio o no.
Ora: chiunque se l’è chiesto almeno una volta, di qualcuno, di fronte a comportamenti considerati in qualche modo bizzarri o pretestuosi, o, ancora, falsi. Quale che sia la risposta, è una domanda psicologicamente mal posta.
Se metto in campo un comportamento, vuol dire che - in una qualche misura - esso appartiene al mio repertorio. Non saprei fare una conversazione in Irlanda se non sapessi un po’ di inglese. Corretto?
In altre parole: ciò che noi troviamo dissonante con l’idea che ci siamo fatti di una persona è perché ne conosciamo solo una parte, l’abbiamo vista solo in alcune condizioni. Senza scomodare Walt Whitman e il suo “contengo moltitudini”, la questione andrebbe riformulata dicendo: Ci è e ci fa.
Quella persona sta utilizzando i suoi repertori per venir fuori da quella sua situazione. Sono sconnessi, inediti, perturbanti? Che scoperta: lo siamo tutti.
Meglio approfondire il significato con lui/lei di quello che sta facendo, anziché difenderci dietro domande mal poste.
NB: La pericolosità del “ci è o ci fa” è ancor più preoccupante quando si tratta di bambini che soffrono. I loro repertori, per quanto in divenire e anche strazianti, sono il loro modo di esprimersi in quel momento. Mai sottovalutarli, o derubricarli. I CAPRICCI NON ESISTONO. E’ solo l’ennesima bufala psicologica che ci siamo tirati dietro per anni.
3. Le frasi motivazionali. Mi spiace, non funzionano
Secondo alcuni psicologi (Fonte), l’autostima non serve a granché. O meglio: non ci aiuta automaticamente a avere una miglior qualità di vita. E’ “semplicemente” la capacità di valutarci bene e di ritenere quella valutazione credibile. Si basa sul confronto - e Dio solo sa quanto il confronto con 8 miliardi di altri essere umani possa essere impietoso.
Immaginiamo, però, che per qualche evento particolare, l’autostima dalle tue parti sia bassa. Beh, ripeterti frasi motivazionali allo specchio e/o mantra, non funziona.
Uno studio del 2009 (Fonte) ha, infatti, dimostrato che per persone con autostima bassa ripetersi “Sono una persona amorevole” o cercare le ragioni per cui considerarsi tali non solo non funziona. Peggiora l’umore. Una spiegazione che i ricercatori si sono dati è che, come accade con i complimenti, vengano elicitati pensieri contradditori. E che, quindi, la persona tenda a non crederci, aumentando la spirale di pensieri negativi.
FUNZIONA QUESTO, PERO’
E’ chiamato protocollo del Perfect Nurturer ed è stato sviluppato nella terapia focalizzata sulla compassione (Fonte). Parte da una considerazione semplice quanto efficace - nonché clinicamente dimostrata (Fonte). Questa:
l’autocompassione è importante nei momenti in cui non stiamo funzionando bene, ci avvicina di più agli altri e alle cose che abbiamo in comune.
Viceversa:
l’autostima si attiva quando le cose vanno già bene e si basa sulla comparazione con gli altri, distanziandoci da essi.
Crucially, self-compassion focuses on generating a particular type of emotion towards the self that can loosely be called self-warmth or self-kindness.
Paul Gilbert, 2009
Il protocollo del Perfect Nurturer serve, quindi, ad aumentare la sicurezza in sé stessi attraverso il dialogo interiore e funziona perché non sollecita l’autostima - che è come la vitamina D, molto difficile da tirare su se la perdi - ma l’autocompassione.
Ecco i passaggi del protocollo.
Per prima cosa, crea il Perfect Nurturer. E’ una specie di allenatore mentale: scegli l’immagine di una persona (reale o immaginaria) a cui rivolgerti quando hai bisogno di sentirti in un posto sicuro. Qualcuno che stimi.
Immagina di dirle/dirgli quello che stai passando, come ti senti e gli aspetti su cui vorresti lavorare.
Come ti risponderebbe? Scrivi nel dettaglio che cosa ti direbbe per gestire quello che stai vivendo. I consigli, le strategie che ti suggerirebbe, la mentalità che ti propone di adottare.
Tieni con te queste parole e ogni volta che ti senti in difficoltà, rileggitele. Prova a fare come ti viene suggerito.
Soprattutto, agisci. I brutti pensieri si sconfiggono entrando nella zona di apprendimento, che si affaccia sulla soglia di quello che tu chiami comfort.
Se vuoi approfondire su questo protocollo, ecco un paio di risorse: un articolo sul modello e un capitolo sull’approccio terapeutico.
Grazie per aver letto fino a qui!! ;)
Per commenti, basta rispondere a questa mail – e sì, rispondo a tutte le mail.
M(ercoledì)arzia
Dalla lettura di Mercoledì.
Rosa chiuse il libro e chiese a Martina se era malata.
“Se sono malata? Che domanda è?”
“Hai la febbre o qualcos’altro?”
“Non ho niente.”
“Non ti fa male la testa? O la pancia? Non gomiti neanche?”
“Non ho niente di niente, quanto rompi! Perché me lo chiedi?”
Rosa le raccontò di aver sentito una cosa molto strana dietro la porta. Loro, i genitori, dicevano che Martina era infetta da qualche virus ed era per questo che l’avevano adottata, per curarla. Rosa si chiedeva, innanzitutto, se il virus fosse contagioso e, in secondo luogo, se si ereditava all’interno della famiglia, perché dopotutto erano cugine. I genitori le avevano detto di chiamarla sorella, non cugina, proprio come Martina doveva chiamare loro papà e mamma, ma Rosa faceva ancora molta fatica ad abituarsi all’idea. Martina era lì da quattro mesi. Non si costruisce una sorella in quattro mesi.
Sara Mesa, La famiglia, 2022/2024, pp. 12-13
Utilissima, grazie ❤️