Kyle e Thimothée, Chiara e Federico. E noi?
Le separazione degli altri, e le nostre. ISTRUZIONI PER EVITARLE E, SE INEVITABILI, PERLOMENO GESTIRLE
Sembra che si stiano lasciando tutti, ora. Sarà l’arrivo della primavera? Posto che non ne sappiamo niente della vita di loro 4 - anche se apparentemente è sotto i nostri occhi -, quali lezioni possiamo trarne?
Ci sono coppie LAT (Living Apart Together) che si vedono solo su Zoom, famiglie nate dalla procreazione assistita (PMA) o dalla gestazione per altri (GPA), famiglie pluri-nucleari, relazioni poliamorose, coppie con figli ma senza sesso. Ciò che unisce tuttǝ, è che prima o poi le relazioni finiscono. Come accade?
E come durano, quelle che ce la fanno?
Da piccola, mi è sempre sembrato che le coppie funzionassero col pilota automatico. Che, in altre parole: bastava volersi bene. Crescendo, capisci, invece, che ci sono quelle che ce la fanno - complice anche il fattore C- e chi si perde. Non è una colpa: è così raro che qualcuno ci abbia insegnato a fare manutenzione delle nostre relazioni. Di amore, ma anche di amicizia.
Chi ce la fa
Per capire quali sono le caratteristiche di chi ce la fa, ecco due psicologhe che hanno dedicato buona parte delle loro carriere alle coppie. Laura Fruggeri ha insegnato all’Università e fondato una scuola per terapeuti. Umberta Telfener si definisce amorologa, ma é molto di più: filosofa, epistemologa e psicoterapeuta. Eccole qui.
Iniziamo da Laura (Fruggeri) e da una ricerca che apparentemente non c’entra nulla con le coppie.
Siamo negli Anni Novanta, in un ospedale del Nord Italia. Alcuni pazienti riescono a mantenere complesse terapie farmacologiche, e altri no. Laura si interroga e “scopre” che ci riesce chi ha un infermiere che sta attentǝ alle sue relazioni. In che senso? Prima di decidere quali farmaci, con che cadenza e con quale modalità somministrarli, si informa sulla sua vita e sul suo ménage familiare. Non solo, adatta la terapia alla vita che fa quella famiglia. Non viceversa.
A me piace applicare questi modelli anche ad altro: tipo, a come ragioniamo nelle nostre relazioni.
DISCLAIMER: I modelli sono semplificazioni illustrative di fenomeni complessi.
Non pensare l’Altro (e i suoi mondi)
Il modello dell’”Altro assente” è quando non prendiamo in considerazione l’Altro, affrontiamo “un problema di qualunque natura come se esso nascesse e si esaurisse nell’individuo” (Fruggeri, 1997, p. 167), senza tener conto delle 1000 implicazioni/vincoli delle nostre azioni sui mondi dell’Altro. Quando ci succede, è perché ragioniamo in maniera individualistica. “Se per me va bene questa cosa, va bene per tutti”. Sort of.
E’ successo anche a Mercoledì. Tanti anni fa, capitava che prendesse appuntamenti per due senza chiedere all’Altro se fosse libero. Lo faceva per velocizzare il tutto, dando per scontato che fosse d’accordo. Spoiler: non era così.
Collaborazione unilaterale: “Fai come dico io”
Nella “collaborazione unilaterale”, l’Altro è preso in considerazione, d’accordo, ma solo come esecutore. Capita che ragionino così persone che lavorano nel mondo riabilitativo, quelli che ti dicono “a casa fai come ti dico io”, per intenderci, senza chiedersi se l’Altro è in condizioni di poter applicare quanto proposto. Il risultato è che si fanno cose insieme, l’Altro esiste, ma non può negoziare molto. Ne consegue che la persona che ragiona così - senza accorgersene - non vede gli squilibri che questo può creare all’Altro e ai suoi mondi.
Nella gestione della casa, questo potrebbe essere un tema scottante. Si chiede collaborazione e ripartizione del carico mentale, ma non co-partecipazione delle scelte, anche se minuscole, su come si gestisce la casa, ad esempio. Il “Fai come dico io” diventa una gabbia che imbriglia tuttǝ e due, chi decide e chi non può co-decidere, ma solo applicare.
Mi sostituisco a te. Punto.
Nel “modello della sostituzione”, l’Altro e i suoi mondi esistono, ma sono considerati problematici, da sostituire. Frasi come “Sei tu che mi blocchi”, “E’ colpa tua”. O ancora: “E’ colpa della tua famiglia, vedi?”. In questo modo, le responsabilità sono sempre dell’Altro. Perché non va bene?
Perché non fa bene a nessuno giudicare negativamente il/la propriǝ partner. E’ come un boomerang, il disprezzo: torna indietro a chi lo lancia. Dice Umberta (Telfner) in una recente intervista:
Lo sport più praticato dalle donne è quello di trattare male gli uomini: forse si parla troppo poco di quanto si squalifichino e critichino i maschi. Sono stata femminista, per otto anni ho tenuto incontri di gruppo con altre donne e sono contenta che la nostra lotta per esistere ci abbia rese molto più forti. I maschi hanno perso potere, il patriarcato non è morto ma sta morendo e questa è una fortuna, però stabiliva princìpi molto netti di bene e di male, fissava valori e aspettative. Ora prevalgono le attese basate sul successo individuale, e chi non lo consegue è ritenuto colpevole assoluto del proprio fallimento. Lo sgretolamento dei vecchi valori ha messo nei pasticci i giovani, perché la libertà a tutto campo non rende più solidi ma può ingenerare mille paure.
Può capitare che ci sostituiamo temporaneamente, perché l’Altro non è in grado in quel momento (é ammalatǝ, é giù di tono, ce l’ha chiesto lui/lei). Ci sta. Non ci sta, però, se lo facciamo sempre. Alla lunga potremo tuttǝ e due finire a pensar male di lui/lei.
Non ci sta nemmeno se ci sostituiamo alla sua famiglia - anche se fosse la peggiore del pianeta: é uno dei suoi mondi. Anche se non la frequentasse più, anche se la famiglia di fatto ci delegasse a questo: nessunǝ di noi ha il diritto di pronunciare sentenze sulle appartenenze degli altri.
Co-evolvo con te
Qui abbiamo molte più probabilità di far funzionare la relazione. Perché, pensiamo l’Altro - e i suoi mondi - come parte del nostro percorso. Ci interroghiamo su come quello che diciamo agirà in lui/lei e nei suoi mondi. Questo domandarci cose fa sì che cambiamo anche noi: come potrei dire quella cosa? Quali informazioni ho? Me ne servirebbero altre? Siamo sicurǝ che sono nel giusto?
Si chiama “modello co-evolutivo” apposta. Nel nome incamera una grande - e dolorosa - verità: se evolve solo unǝ dei due, la relazione non funziona. E non solo perché lui/lei è rimastǝ indietro, ma perché non ci siamo postǝ il problema di camminare insieme, di coinvolgerlǝ nella nostra crescita.
Racconta di una co-evoluzione mancata Breat Easton Ellis, che recentemente si è ritrovato il marito in quella che è stata raccontata come una crisi psicotica per la quale è finito in carcere (siamo in California):
E’ una linea di demarcazione sottile quella che separa l’amare qualcuno dal permettergli di fare ciò che vuole - non te ne rendi davvero conto finché non ti colpisce come un pugno in faccia. (…) Sono stato cieco perché vuoi credere che tutto vada bene ed evitare la sofferenza e lo stress e la pena derivanti dal capire fino in fondo la situazione - quella terribile chiarezza che non vuoi affrontare.
Breat Easton Ellis, 2024
Investiamo in libri che ci aiutino a lavorare sulle relazioni: fare manutenzione, oppure salutarsi. I libri di Umberta Telfener sono fatti apposta. Qui li abbiamo letti e straletti, e ancora prendiamo appunti.
Grazie per aver letto fino a qui! ;)
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M(ercoledì)arzia
Dalla lettura di Mercoledì.
Lo chiamano lutto. Se accogli i suoi inviti, le sue chiamate a sentire la morte, interrompere tutto, sedersi o sdraiarsi e assaggiare l’assenza, allora è un dono. Se fingi che non ti chiami, se riempi ogni attimo di distrazione, ti fa a pezzi, brandelli di te che non stanno nell’intero del reale cambiato: aggiornare il file, con questo buco che vuole spazio, vuole ospitalità.
Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove, ma è nel dolore la soluzione al dolore, sentendolo, abitandolo, assaporandolo, a poco a poco diventa parte di noi, non più un estraneo, ma un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un amante e dopo la fine un pezzo di noi.
Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva, 2018