Dopo aver superato indenne la sua prima newsletter, Mercoledì si è chiesta: cosa sta diventando? E’ una domanda complessa: Se sei altamente sensibile, è difficile (per te e per gli altri) capire chi sei.
Quante volte mi sono sentita dire: “Quando capirai cosa vuoi fare da grande”. O: “Non ti capisco”. A chi frequenta i peggio ambienti, capita pure di sentirsi dire: “Di chi sei tu?” o “Ma questa, chi ***** è?”, finanche: “Chi si crede di essere?”. Diciamocelo: facciamo un po’ la figura di Heidi, in quelle occasioni. Salvo, poi, sentirci effettivamente “non facilmente collocabili”.
E’ il lavoro di una vita a capire chi siamo, per tutti. Quando hai da gestire anche la tua alta sensibilità, però, è più difficile. Perchè: non stiamo parlando di qualcosa di: 1) diffuso, 2) riconoscibile, 3) univoco.
Cosa vuol dire, allora, capire chi sei?
Vuol dire essere autonomi?
Sì, ma. Autonomi non significa saper fare tutto da soli. A differenza di quanto ci hanno insegnato, essere autonomi significa saper fare le domande giuste alle persone giuste. Che, scorporato, significa:
saper fare domande (affrontando, quindi, il rischio connesso: prendere parola, riconoscere di aver qualcosa da chiedere, esporsi ad un rifiuto);
sapere che vivere significa (inter)dipendere dagli altri (e, quindi: che no, non è una brutta parola, dipendere);
saper diversificare le dipendenze: averne più d’una e per diversi scopi, nelle persone e nei “contesti”. Di solito chi sta male chiede tutto a pochissimi: tutto al lavoro, tutto al partner, tutto ai figli - i quali, poracci, non possono proprio corrisponderci;
saper connettere quello che le persone ti possono dare con ciò che stai chiedendo loro. Mercoledì fa sempre un esempio: Non posso chiedere amore al mio idraulico, mentre al mio amante chiedo di ripararmi i tubi (C’è chi lo fa, eh, ma forse si è confuso). Meno vignettisticamente: saper (inter)dipendere significa avere consapevolezza dei piani su cui ci si può sostenibilmente incontrare. Sto chiedendo la cosa giusta alla persona che ha le risorse per rispondermi? Altro esempio, questa volta al negativo: a noi altamente sensibili non si può chiedere di non andare in over-arousal (se non sai cos’è, ripassa qui).
*PUNTINO SULLE I: Mercoledì ci tiene a dire che non ci appoggiamo solo a persone, ma anche a contesti: il lavoro, la scuola, la palestra. In ognuno di questi contesti diventiamo autonomi a seconda degli strumenti disponibili e dei modi di utilizzo. Un rapido esempio che arriva da lontano.
Ti ricordi quando hai iniziato a usare le forbici, all’asilo? Probabilmente no. Ma: è molto diverso iniziare a farlo con un pesante paio di metallo o con un maneggevole utensile di plastica a misura di bambino, no? E ancora: fa la differenza fare un lavoretto con un solo paio di forbici in mano alla maestra* - scatenando quindi una lotta impietosa per la sua attenzione - oppure imparare con tante paia di forbici accessibili ad ogni tavolino.
Ecco spiegato perché in certi ambienti “da grandi” la gente ancora “fa la spia” o “attira l’attenzione su di sè”. Con tutta probabilità è perché ha imparato a (non) essere autonomo in contesti dov’era tutto un: “Maestraaaaa*, Astrocefalo mi ha tagliato il mignolo e l’ha messo nel dassssss!!!”.
Posti in cui, tecnicamente, c’era poca “dispersione della dipendenza” (la teoria è quella dei costrutti di Kelly): gli strumenti - e il potere connesso - erano tutti in un unico posto, con poca possibilità di disperdere le fonti di dipendenza in giro, e trovare quella più comoda per sé.
Vuol dire scegliere.
Diventare chi sei significa fare scelte, autodeterminarsi per uscire dalle crisi. Per chi è altamente sensibile, questo può significare: dir(si) cose scomode e poco comprensibili per gli altri.
Cose piccole, come: che d’estate preferisci la montagna al mare, i luoghi ritirati a quelli affollati, il negozietto della tua amica quando è vuoto.
O cose grandi, tipo: scelgo quel lavoro anziché quell’altro che pure vorrei tanto saper gestire, ma non riesco.
E’ tutto ok.
Vuoi sapere come funzioni nelle scelte?
Trovare il proprio posto nel mondo.
Diventiamo chi siamo non solo perché abbiamo più informazioni e consapevolezza (se ti sei perso che cosa ne pensa Mercoledì della consapevolezza, recupera qui), ma perché abbiamo trovato il nostro posto in una comunità. Che si tratti di un gruppo di attivisti, il nostro quartiere, quelli con cui ci sfondiamo di sport nel weekend. E’ una “liberazione relazionale” quando diventiamo di chi siamo nelle nostre comunità.
“Le persone diventano ciò che sono attraverso le relazioni, e non dal distacco dalle relazioni” (Rita Karoline Olsen)
Si chiama teoria dell’autonomia relazionale (Soldberg). E’ molto recente e Mercoledì la sta ancora studiando. Quello che, però, ha capito è che: se non hai una comunità, te la puoi sempre creare. Sapendo che quello che farai - che magari non sarà definitivo - può iniziare a costruire il processo per diventare sempre più chi sei tu.
Darsi spazio.
“Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere la speranza di essere se stessi” (Jean Bertrand Pontalis).
Che bella espressione, la speranza di essere se stessi. Come un arrivo, e non come qualcosa che abbiamo già chiaro dall’inizio. Che sollievo. Ci possiamo dare speranza, facendo cose, scoprendo, sbagliando. Ricominciando.
E darsi meno fastidio.
In una cultura dell’accelerazione (Brinkmann) e dell’esaurimento come valore (Byung-Chul Han), è un attimo finire nel trita-carne. Tradotto in termini psicologici: ci fa bene ri-conoscere ciò che abbiamo già fatto, gustarne il significato, e sapere che non possiamo chiederci la soluzione individuale a problemi collettivi. Del tipo: Perché non ho il lavoro dei miei sogni? Perché accanto a me non ho una famiglia perfettamente funzionante? Eh, caro mio.
Salutiamoci con un po’ di papere a tema. Ci vediamo nella tua casella mail Mercoledì 25 Ottobre.
Hasta Mercoledì siempre! ;)
Per commenti, basta rispondere a questa mail – e sì, rispondo a tutte le mail. Anche perché ho un nuovo indirizzo: marzia@thehyperme.it
M(ercoledì)arzia
C) risposta corretta. (Fonte)
*Mercoledì vorrebbe tanto poter scrivere Maestroooooo, ma un recente report OCSE mostra che in Italia il 99,3% del personale di nidi e scuole dell’infanzia si riconosce nel genere femminile. E’ un problema? Certo che lo è, anche se noi vogliamo un sacco di bene alle nostre adorate insegnanti! ;)
Dalla lettura di Mercoledì.
Quando la conobbi, Beatrice aveva trentaquattro anni. (…) Io avevo diciannove anni, mi svegliavo a mezzogiorno con i postumi della sbornia, e pensavo: ah, quindi a trentaquattro anni sarò così, una donna organizzata e produttiva che cucina il farro con i porri (Beatrice cucinava cose salutiste che, prima di incontrare lei, non avevo non solo mai mangiato ma proprio mai sentito nominare). (…) Poi ne ho avuti trentaquattro - e i sedici successivi - e ho scoperto che diventi solo quello che sei. Sono stata mollata molte volte ma non ho, da quando ho perso di vista Beatrice, mai più mangiato il farro.
Guia Soncini, Questi sono i 50, 2023
Che bello essersi dati spazio anche con questa newsletter! Grazie Mercoledì, a presto