Metti quel cappello a gennaio.
Pochi giorni e la signora Trump già vuol farci impazzire col suo nuovo personaggio. Eppure, per tenere le persone a distanza ci sono anche altri metodi - meno paradossali
Mentre gennaio finisce, arriva Mel T e, nel giro di una settimana:
emette una criptovaluta, per sanare i debiti che in famiglia non mancano - certo, il nome SMelania, con la s- privativa…;
sfodera un cappello che tiene a distanza praticamente chiunque;
annuncia un documentario sulla sua vita;
svela una foto ufficiale che manco il Diavolo Veste Prada.
Insomma, si è rivelata per il personaggio che è: la modella di uno show. In attesa di capire se è reality o horror, cosa ci può raccontare questa vicenda, dal punto di vista psicologico? Secondo chi scrive un sacco di cose.
Intanto, in questa newsletter:
decriptiamo quel cappello secondo la psicologia della comunicazione non verbale: cosa nasconde e cosa rivela;
ti spiego perché il suo messaggio è contraddittorio secondo la teoria del doppio legame - e, credimi, è fondamentale saperlo riconoscere;
ti mostro cosa funziona e cosa NO per mettere a distanza le persone senza necessariamente avere cose voluminose in testa;
uso la ruota delle emozioni per supportarti a dare un nome a quello che stai provando - sapendo che le emozioni sono uno dei tanti elementi di cui si compongono le tue scelte;
infine, ti regalo una playlist per ballarci su.
Vamonos. Anche se in ritardo di qualche giorno, un Mercoledì ci sta sempre. Intanto: chi lo sapeva che alla signora Trump piacessero così tanto i cappelli.
Non solo: chi poteva immaginare che un cappello avrebbe spinto Giovanna Botteri - storica inviata Rai - a farne una parodia. L’attacco del suo pezzo merita.
Senza parlare dell’Inauguration Day secondo Fabio Celenza.
Quel cappello a gennaio
Che quel cappello si prestasse ad essere un meme l’avevamo capito (a proposito, sai che i meme sono diventati uno strumento didattico? guarda qui).
Certo, non è proprio l’ideale da parte di una first lady, da cui di solito ci si aspetta trasparenza, apertura e sostegno alla speranza. N’importe quo - si saranno detti a Capitol Hill - mettiamole quel cappello e non si parlerà d’altro per giorni.
Proprio così, ragazzi, avete fatto una scelta semiotica fortissima senza farla nemmeno parlare - in caso contrario, il gesto sarebbe stato di tipo funzionale, secondo Kendon (Fonte).
E’ bastato quel cappello per:
nasconderle gli occhi. Insieme ai suoi elementi fisiologici, come la dilatazione delle pupille, il battito delle palpebre e i movimenti oculari, lo sguardo è fra i sei elementi imprescindibili della comunicazione non verbale (gli altri sono: aspetto esteriore, volto, voce e aspetti non verbali del parlato, comportamento spaziale, movimenti del corpo e gesti).
Nascondere lo sguardo significa sbilanciare intenzionalmente l’equilibrio fra guardare ed essere guardati.
Togliere quella porzione del volto vuol dire anche eliminare l’espressione emotiva dallo scrutinio pubblico. E’ dal volto, infatti, che possiamo capire quali emozioni sono in ballo, mentre è dal corpo e dal tono della voce che ne desumiamo l’intensità (Fonte).
aumentarle la distanza corporea. Per chiunque, la “zona intima” si estende fino ai 45 cm. Di lì in poi inizia quella “personale”, che può arrivare fino al metro e venti. Con quel cappello qualche centimetro di distanza in più è certamente guadagnato.
Senza contare che è proprio da come si usa lo spazio che - secondo la comunicazione non verbale - si capiscono precisi tratti di personalità (avete presente l’uso dello spazio di chi è particolarmente introverso?), stati emotivi e atteggiamenti (Fonte).
mostrare il suo sforzo nell’orientarsi verso gli altri. A voler bullizzare il marito non si poteva far di meglio.
“Vuoi essere baciato da una dea, Donaldo?”
“Che me lo chiedi?”.
“Bene, allora vedi che sforzo ciclopico devo fare per avvicinarmi”. E, infatti, questa dea ha una moneta ad honorem per ripagare i suoi sforzi.
Conio a parte, è chiaro che in ogni occasione ciascuno di noi utilizza strategie più o meno consapevoli per presentarsi. E’ come se fossimo tutti attori a teatro, diceva Goffmann (qui): c’è sempre una scena, un pubblico, ruoli e copioni più o meno flessibili.
In quelle occasioni, c’è chi punta sui simboli, chi lavora sullo status, chi sottolinea aspetti di sé per mostrare di appartenere ad un certo gruppo o chi fa di tutto per essere accettato in quello nuovo. C’è anche chi usa il silenzio - un elemento tutt’altro che privo di significato.
La scelta di quel cappello in quell’occasione è anche un messaggio specifico. E’, infatti, come se dicesse “Non guardarmi” e, contemporaneamente, “Non puoi ignorarmi, anche se lo volessi”.
Si chiama doppio legame. E no, non è proprio il massimo
Lo scopre negli Anni Sessanta un ricercatore polacco laureato a Ca’ Foscari su una tesi su Dostoevskij, che prima diventa junghiano e poi fonda la scuola della pragmatica della comunicazione umana in California. Si chiama Paul Watzlavich e, tra le tante cose, ha anche studiato la comunicazione delle persone schizofreniche.
La nostra teoria è che il dialogo incomprensibile degli schizofrenici derivi dal loro tentativo di dire qualcosa e contemporaneamente non dire - ovvero l’unica soluzione possibile nel caso in cui debbano obbedire alle regole imposte da un doppio legame.
Paul Watzlavich e Don D. Jackson, 1964/2011, p. 27
Sintetizzando una parte di questa teoria, le famiglie i cui figli sviluppano la schizofrenia sono organizzate a doppio legame - con messaggi e regole a cui i familiari non possono sfuggire e che si contraddicono continuamente, nei contenuti e nei modi.
Del tipo: Ti voglio bene, detto schiaffeggiando il figlio.
Ora: Mel T non è una nostra familiare, non siamo in una relazione così intensa con lei da considerarla una persona dalla quale dipende la nostra stessa sopravvivenza. (Oddio, in termini geopolitici non saprei)
Epperò, il suo messaggio è paradossale perché pone l’interlocutore in un dilemma.
Comunque fa, sbaglia.
Ed è proprio così che ci si sente quando qualcuno ti mette in un “doppio legame”. Deludi sempre almeno una delle due ingiunzioni del messaggio.
Se la guardi, deludi il suo messaggio esplicito (“Lasciatemi in pace”), se la ignori stai contraddicendo la sua richiesta implicita (“Non puoi ignorarmi”) (Fonte).
Perché abbiamo bisogno (anche) di distanza
Su una cosa Melania ha ragione, però: stare un po’ per i fatti propri è una funzione sociale, non solo una prerogativa di chi è introverso. Tenere le distanze - che non significa evitamento, quello era in una vecchia puntata di Mercoledì: questa - ha le sue funzioni.
Rilassa, permette di chiarirsi le idee e serve a diminuire gli stimoli che il nostro sistema nervoso deve processare.
Se, poi, sei altamente sensibile, il ritiro ti è vitale. Serve a ripristinare livelli gestibili di attivazione neurofisiologica che, rispetto alle altre persone, è notevolmente più alta. Ne abbiamo parlato in quest’occasione.
Quando vorresti solo intenerire le stelle
Sono state settimane intense - se non per tuttǝ, sicuramente per chi scrive. Quanti stimoli.
Attenzione, però.
NON tutto funziona
Quando vogliamo mettere a distanza qualcuno:
NON funziona pensare che ci arriverà da solo.
NON funziona neppure la telepatia.
NON funziona “pensare positivo”. Convincersi che senza parlarne riuscirete a farvi capire e andrà tutto bene è pura fantasia.
NON funziona rispondere con altri messaggi contraddittori. Il doppio legame non si scioglie con retroazioni paradossali. Anche se purtroppo avviene di frequente. Un esempio? Cosa fai quando qualcuno ti espone a un’ingiunzione paradossale, come “sii te stesso”, “fai come se non ci fossi”, “esprimiti liberamente”. Di solito reagisci o con l’immobilismo o clamorosamente. Due reazioni ugualmente problematiche.
Cosa FUNZIONA, allora
Ascoltarti per capire nel dettaglio le emozioni che stai provando. Senza assolutizzare, però.
La parola “consapevolezza” suona molto banale e anche piuttosto vaga, ma è uno strumento di cui ignoriamo l’utilità finché non decidiamo di usarlo. Spegnere il pilota automatico e diventare consapevoli dei pensieri, delle emozioni, delle pulsioni e delle azioni accende di giallo il semaforo che altrimenti diventerebbe verde, costringendoci a reagire agli eventi sulla base del nostro puro stato emotivo. Ci offre l’opportunità di fare una pausa consapevole, laddove il pilota automatico ci avrebbe indotti a caracollare in avanti senza riflettere. Questo aumenta le possibilità di fare scelte differenti, basandoci sui nostri valori profondi piuttosto che semplicemente reagendo a un’emozione.
Julie Smith, Perché nessuno me l’ha detto prima, 2009/2023, p. 100
Un buon strumento per ascoltarti è questo: la ruota delle emozioni di Willcox (1982). Serve per dettagliare e dare il nome più esatto possibile a quello che stai provando.
Esprimerti in maniera assertiva. La faccio breve. Un messaggio assertivo si compone di tre parti:
DESCRIZIONE NON VALUTATIVA di quello che è problematico per te + EMOZIONI che provi in quella situazione per te problematica + PROPOSTA DI CAMBIAMENTO.
Es: Quel cappello che ti copre gli occhi (DESCRIVI SENZA VALUTARE)
mi mette a disagio, Melania (EMOZIONE).
Appena ti fosse possibile, te lo puoi togliere così posso parlarti senza sentirmi in imbarazzo? (PROPOSTA DI CAMBIAMENTO)
Siamo arrivate alla fine. Eccoti servita una playlist speciale.
Qui troverai canzoni che in qualche misura tematizzano aspetti in contraddizione - se non proprio di doppio legame - e un altro paio di cose di cui abbiamo parlato in questa newsletter. Le ho selezionate perché fossero tutte “ballabili”, come si diceva decenni fa.
Perchè, hey, nessuno mette Baby in un angolo.
Grazie per aver letto fino a qui! ;)
Per commenti, basta rispondere a questa mail – e sì, rispondo a tutte le mail.
M(ercoledì)arzia
Dalla lettura di Mercoledì.
Noi sentiamo tante volte in televisione personaggi che dicono “Ho realizzato me stesso” e tolgono a chi li guarda il desiderio di perseguire una finalità simile, vista la modestia dei risultati. Non indugiamo poi su certi attori che dicono: “Voglio denudarmi, voglio mettere i miei visceri in piazza”. Ma per l’amor di Dio! Nessuno vuol vedere i tuoi visceri, tienili nascosti! Non è quello il problema, noi non abbiamo nessun interesse per i tuoi visceri! Noi abbiamo interesse per un’arte capace di coinvolgerci, capace di comunicarci qualcosa d’importante. Certo un artista attinge alla sua interiorità, ma il suo scopo non è di esprimerla, è di esprimere qualcosa che sia vivo, vitale e vero per gli altri.
Giuseppe Pontiggia, Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere, 1994/2019, pp. 26-27