Questo disperato bisogno di GURU
A chi ti affidi, a quali tipi di conoscenza dai seguito, chi è per dirlo.
Sarà ottobre, il Natale incipiente, tant’è. In questi giorni sembra che ci sia una lotta compulsiva al libro/video/contenuto che ti spiega la vita o una nuova strategia per far fluire il karma. Una lunga lista di persone che si autoproclamano GURU di qualcosa. Come togliere loro questo privilegio?
Le cose sono due (no, non c’entrano le lacrime): o ci piace farci prendere in giro [e non credo], o davvero le nostre paure sono talmente grandi che prendiamo per GURU quasi chiunque.
Oggi Mercoledì - che sì, bisogna dirlo, un po’ livorosa lo è quando la gente parla a sproposito di Psicologia - si chiede: che titoli* hanno questǝ sedicentǝ GURU per parlare delle cose di cui parlano? Attenzione: per *titoli non si intende necessariamente la laurea, ma l’insieme delle fonti di conoscenza, le posizioni epistemiche e la modalità di utilizzo della conoscenza. SPOILER: Di solito chi mostra apertamente le sue fonti [e la loro parzialità], sa relativizzarsi parecchio e non corre il rischio di darci una fregatura.
Attenzione, però: la maggior parte di chi finisce nella trappola di questi SEDICENTI GURU è sensibile, sta affrontando una crisi personale e difetta di lucidità. Difendiamoli e difendiamoci, please.
In questa newsletter:
provo a spiegarti come riconoscere una fonte di conoscenza autorevole;
analizzo la differenza fra conoscenza scientifica e attivismo - e ti spiego perché ti riguarda;
ti racconto qualche aneddoto personale;
ti spiego che cosa sono le posizioni epistemiche: sì, le hai anche tu, senza saperlo (!);
ti regalo indicazioni pratiche su come evitare fregature, soprattutto in campo psicologico.
Domenica sera ricevo questo WhatsApp.
“Oggi è il PAS day, com’è che non hai fatto iniziative?”
“Dove l’hai letto?”
“Su Repubblica, c’era un video sull’alta sensibilità”
“Ok, fammi vedere.”
Fine della storia triste.
Ora: non ti posso dire chi e che cosa ho visto su quel sito, però ti posso dire che, per quanto io abbia cercato, il 6 ottobre-giorno dell’alta sensibilità non compare nel principale sito di riferimento (questo). Questo non vuol dire che non sarebbe bello. E non vuol nemmeno dire che per celebrare la festa abbiamo bisogno dell’imprimatur dell’esperta mondiale. Però.
Qual è la fonte?
Che tradotto significa: che tipo di conoscenza hai per poterlo dire? Vale per tutti gli ambiti, mica solo quello dell’alta sensibilità.
A proposito: se sei curiosǝ di scoprire se sei altamente sensibile - una condizione che riguarda una persona ogni 5/6 - qui un breve test per capirlo.
Intendiamoci: la conoscenza non è solo di chi fa scienza. Ci sono tantissimi expertise diversi. Ad esempio:
Chi è espertǝ per studio e formazione. Lo è chiunque abbia un titolo di istruzione in un ambito specifico: gli accademici che insegnano possono farlo in virtù di ricerche precedenti, chi lavora nella scienza mette costantemente alla prova le sue conoscenze, facendole evolvere. Ci sono, poi, titoli e titoli - ma di quello ne parliamo un’altra volta;
C’è, poi, chi è espertǝ per professione. Sono quellǝ che, a furia di provare e riprovare sul campo - dove può esercitare perché ha il titolo di cui sopra - sviluppa un modo di conoscere e intervenire nel mondo che è anche pratico, basato sul riscontro e sulle consuetudini che si utilizzano in un determinato campo.
Chi è espertǝ per esperienza personale. Colui o colei che “ci è passatǝ” e, passandoci, ne ha ricavato una conoscenza specifica. Usa ciò che gli/le è successo per sensibilizzare chi sta dall’altra parte (personale medico, sociale, volontari), di solito.
C’è, poi, chi diventa esperto facendo attivismo. Indipendentemente dal fatto che “ci sia passatǝ” o meno, le/gli attivistǝ si battono per cambiare lo status quo su una condizione - per qualche motivo, minoritaria (cioè appartenente a minoranze di persone).
Ora: queste sono tutte tipologie legittime di conoscenza, che si inseriscono in un quadro storico-culturale specifico. Ad esempio, di questi tempi, spesso la prima fonte di conoscenza - quella di chi fa scienza o accademia - è spesso bistrattata, fatto salvo che quando poi ne abbiamo bisogno, andiamo a ricercarla. Un esempio?
Anni fa, chiacchierando in una sala d’attesa, una signora anziana mi chiese che lavoro facessi. Non feci nemmeno in tempo a dire: “Ricerc-”, che esclamò, tutta contrita: “Oh, poverina”. Era dal dottore - quel posto dove chi ha studiato medicina è autorizzato a metterci le mani addosso e prescriverci farmaci per curarci. Per dire.
Da secoli, le fonti di conoscenza si fanno la guerra. I pratici rimproverano gli/le scienziatǝ: “Quanta teoria!” (come se non servisse avere delle buone teorie). Chi è espertǝ per esperienza urla ai/alle professionistǝ: “Voi non ci capite!! Non siete empaticǝ”. C’è addirittura chi arriva a postulare che l’unica fonte autorevole di conoscenza sia quella di chi “ci è passato”. Il che, allora, presupporrebbe - che so io - che i giudici abbiano commesso i peggio reati, che chi cura le dipendenze abbia provato tutte le droghe del mondo, che di genitorialità possa parlare solo chi è genitore biologico (anche se, per dire, ha messo su una famiglia disfunzionale? Chiedo, eh).
Nessuna fonte di conoscenza ha la verità in tasca e, questo, lo sanno bene proprio gli/le scienziatǝ, che cito perché conosco più da vicino. In campo scientifico, è normale che qualcun altrǝ ti smentisca, che provi a venire a capo del tuo stesso problema con strumenti diversi, o che integri i tuoi modelli - CITANDOLI SEMPRE.
Quello che fa la differenza è, invece, il tipo di conoscenza che usiamo a seconda dell’obiettivo. Non mi faccio mica curare da un ex paziente oncologico? A meno che non si tratti anche di unǝ medicǝ particolarmente bravǝ. Corretto?
Eppure - e nel campo psicologico accade più che altrove - spesso ci affidiamo per la nostra consapevolezza psicologica a chi non ha titoli*, preferendo chi ci è passatǝ personalmente, o chi fa attivismo.
Altre volte, ci affidiamo a veri e propri SEDICENTI GURU, spesso per disperazione (ne abbiamo provati talmente tantǝ!) o perché, invece di cercare nello stesso campo (che so io, andare da un altrǝ psicologǝ perché quellǝ che abbiamo non ci piace più di tanto), andiamo a parare in altri territori di conoscenza. Ho un’altra sad story nel mio arco, a questo proposito.
Quand’ero bambina, un giorno dovetti accompagnare una zia a casa di un’”amica”. La zia soffriva di una malattia che le faceva squamare mani e piedi, povera. Prima di entrare in quella casetta, mi disse: “Aspettare qui, torno subito”. Cosa che feci, diligentemente, notando, però, che da quella signora c’era un andirivieni che mi sembrava strano per una semplice amica. Venni a scoprire anni dopo che, senza saperlo, eravamo andate da una pranoterapeuta. A quel punto, incuriosita, mi feci raccontare quello che era successo là dentro. La signora le impose le mani, mise sul petto dell’olio e recitò delle preghiere in piemontese (si sa: l’idioma che più ci avvicina all’Altissimo). Il problema, per qualche tempo, pareva essersi risolto. Poi, ovviamente, ritornò. Solo allora le venne in mente di fare analisi più approfondite, a cui i vari dermatologi non avevano pensato. Morale della favola? Aveva una grave allergia, la madama.

Da dove arriva questo disperato bisogno di GURU
Partiamo da uno psicoanalista inglese, che parla di GURU come di una risposta alla paura.
Se ormai ogni cosa è sempre più soggetta al parere dell'esperto (dal lutto al fare l'amore), se l'educazione dei bambini, in particolare, è diventata un'industria della crescita, se stiamo vivendo nell'epoca dello specialista, ecco che la psicoanalisi può risultare utile come critica all'intero concetto del "cercasi autorità". Adam Phillips, Paure ed esperti, 1995
Adam, ti prendo in parola e provo a decostruire questo “cercasi autorità”, anche se non sono psicoanalista, ok?
Ti propongo due sentieri.
Il primo è quello di riconoscere che ognunǝ - scienziatǝ e guru compresi - ha un rapporto con la conoscenza: si chiamano posizioni epistemiche. Esserne consapevolǝ fa la differenza. Poi, a me, se devo essere sincera, calma.
Il secondo sentiero è quello di saper riconoscere una fonte autorevole ed evitare fregature.
Le posizioni epistemiche
Sono sei - e anche se sembra uno scioglilingua - seguimi, perché le hai anche tu.
Quello che sai: è l’ambito di conoscenza, di solito appresa per esperienza o per istruzione (es: so ricamare a punto croce);
Quello che sai di sapere: è la capacità di riflettere sulle categorie di pensiero e sulle lenti che utilizzi per decodificare gli eventi (es: se so che tendo a sottovalutare la fattibilità di una cosa, la prossima volta che mi propongono una nuova attività, beh, ci penso un po’ di più);
Quello che non sai: mica si può sapere tutto (es: io non so il giapponese, a parte il feng shui);
Quello che sai di non sapere: è la consapevolezza della propria ignoranza, il non avere risposte su alcuni ambiti ambiti. Più in generale é la tolleranza dell’incertezza, l’affidarsi a chi conosce (es: so di non sapere come andrà il futuro, ma lo guardo tollerando l’incertezza);
Quello che non sai di sapere: l’intuito, spesso, indica strade che non sapevamo di conoscere (es: quando ho incontrato quella persona, non so come, ma sapevo che sarebbe stata una relazione importante);
Quello che non sai di non sapere: sono tutte quelle cose che diamo per scontate, le cose che nemmeno ci immaginiamo e che esulano completamente dalla nostra consapevolezza. E’ proprio questo ambito che organizza la nostra vita, senza che ce ne rendiamo conto. Un buon lavoro psicologico ci aiuta su questo piano: a capire quali sono queste “zone cieche” che agiamo senza rendercene conto (es: potrei non sapere che ogni volta che entra in una stanza chi mi ricorda mia madre….completa tu la frase….)
Ora, chiunque sia espertǝ di qualcosa ha queste fonti di conoscenza, queste posizioni epistemiche. Qual è la mia fonte? Lei, Umberta Telfener, che abbiamo già incontrato qui e che ne parla in un libro utile a chiunque si debba riprogettare per lavoro.
Come si riconosce una fonte autorevole
E’ consapevole non solo di quello che sa, ma anche di quello che non sa. Di quello che sa di sapere, delle lenti con cui guarda il mondo, che riconosce essere parziali. I/le meglio, poi, sanno come e quando usare l’intuito e provano a capire le cose che non sanno di non sapere.
Esplicita i suoi confini. “Arrivo fino a lì. Da lì in poi, vedi tu”. Sono quellǝ che non hanno paura a fare gli invii ad altri, se non è il loro campo di expertise, ad esempio.
Cita le sue fonti - non le tiene per sé come se fossero una pozione esoterica o il segreto della Nutella.
Rende accessibile quello che dice, includendoti. Usa il linguaggio tecnico solo quando capisce che lo mastichi anche tu, oppure quando non può farne a meno. Si prende sempre il tempo, però, per capire se hai capito anche tu. Altrimenti, ricomincia da capo.
Non giudica chi gli si rivolge. “Ma come, su questa cosa, non ha letto X, Y e Z?” Ecco, no, il contrario. Nemmeno usa la sua conoscenza per farti sentire inferiore.
Non banalizza. Ama la fatica della complessità e laddove cerca di ridurla non è per farla venire meno, ma per semplificare i concetti e renderteli accessibili.
Si auto-relativizza: ride di sé quando sbaglia - perchè, hey, anche le fonti autorevoli fanno errori-, è apertǝ a vedersi parziale e non ha paura di mostrare la sua vulnerabilità. Attenzione: non si tratta di captatio benevolentiae o di volontà di normalizzare tutto: è l’ampiezza della sua riflessione ad allargare lo sguardo.
Per commenti, basta rispondere a questa mail – e sì, rispondo a tutte le mail.
M(ercoledì)arzia
Dalla lettura di Mercoledì.
Nella zona messaggi diretti di Instagram, (…) un mattino trovo quello di una donna che mi dice che l’universo le ha indicato il mio nome e che per questo motivo vorrebbe leggermi il futuro. Nelle foto del suo profilo ha la testa per metà rasata e per metà con i capelli lunghi. Mi scrive dall’America, dice. Le rispondo subito che certo, grazie, se l’universo ha detto così e ha un messaggio per me, mi farebbe piacere ascoltarlo. Mi manda qualche cuoricino. Aggiunge sai che costa la mia lettura dell’universo? Le mando qualche cuoricino anche io e dico immagino che costi, sì. Ci mettiamo d’accordo sulla lettura senza bisogno di sentirci, sia perché costa meno sia perché non ho voglia di fare una telefonata. Le trasferisco cinquanta dollari. Quando le arrivano capisco che non è tanto contenta che io non abbia scelto la versione audio da ottanta o quella Zoom da centoventi e mi chiede qualche altra volta se davvero non preferisco sentire la sua voce. No, non preferisco, grazie mille, le scrivo. Aggiungo altri cuoricini. Per qualche ora non mi risponde e mi aspetto di non sentirla mai più. Non mi dispiace per niente averle dato cinquanta dollari, sono certa che le servano. La sera quando apro i messaggi diretti ne trovo uno piuttosto lungo.
L’universo mi ha rivelato che….
Ilaria Bernardini, Il dolore non esiste, 2024, pp. 143-144