Sono troppo carinə?
Se te lo sei chiestə almeno una volta, sappi che è una questione di autostima, di classe sociale , errori cognitivi e del minority stress che provi. Ah, e di quanto idealizzi la gente
Ultimamente, mi è capitato di aver a che fare con persone da millemila follower: menti aperte e disponibili. Nell’interagire con loro, mi rendevo conto di non riuscire a evitare di pensare: “Però, che carinə”.
Poi, in un video trovato per caso vedo riflesso quel mio stesso stupore. La scena è quella dell’incontro con un regista famoso. Chi fa il video ad un certo punto scrive: non se la tira per niente.
😲 Bum. 😲
Ecco di cosa voglio parlare oggi: dello stupore che ti capita di provare di fronte a persone di talento - e famose nel loro campo - che si comportano carinamente. Perché stupirsene?
Non dovrebbe essere normale, invece?
In questa newsletter:
parto analizzando l’Instagram di una campionessa di sci (sperando per un attimo che se penso alla neve delle piste, la temperatura percepita cala);
tematizzo che cosa significhi avere introiettato uno sguardo che si stupisce del comportamento decente di chi è in posizione di potere o autorità;
ne parlo in relazione a classe sociale, meccanismi di difesa (leggi: idealizzazione), genere e minority stress. E mi faccio aiutare nientemeno che da Virginia Woolf e Deborah Levy;
ti racconto un episodio personale - quando sono stata io in posizione di potere e autorità, e cosa è successo. SPOILER: ho pensato alla preside di Matilda;
alla fine, ti regalo una frase che ti rimarrà come un mantra.
Lei è Mikaela Schiffrin, qualcosa come l’atleta dello sci più vincente DI SEMPRE.

La chiamano her majesty da quanto ha vinto. Sono andata a spulciare il suo Instagram (questo) ed è tutto un: come sono grata di stare con lui (Kilde, altro sciatore), come sono grata di questo e di quell’altro.
Intediamoci: Mikaela negli ultimi anni ha patito le pene dell’inferno e non è un’ingenua. Ciononostante, continua a ringraziare e a sorridere a tutty. E’ un'americanata, la sua? E’ vera gratitudine? E’ showing off?
Quale che sia, interroghiamoci sul nostro pensare - anche solo per un attimo - beh, se la potrebbe tirare e non lo fa.
😲
Storia dello stupore introiettato
E’ del tutto ovvio che se pensi che gli altri debbano essere scostanti o poco disponibili per qualche ragione (di fama, di talento, di successo dimostrato sul campo) è una questione tua, non loro. E’ il tuo sguardo a essere opaco.
Ti e mi chiedo, allora: Dove abbiamo vissuto finora, per pensare questo? In un bruttissimo videogioco dove tutti ti davano contro? Nella Roma antica a sbranarti con i leoni nel Colosseo?
Parto da un aneddoto personale, per darti l’idea di quello di cui sto parlando.
Recentemente, a fine corso, mi si fa capannello attorno. Uno studente, una persona che stimo e che ha grandi talenti, mi si avvicina e fa: “Parlo a nome anche dei miei colleghi, prof. Volevamo ringraziarla per tante cose, ma soprattutto perché ci ha mostrato che l’università è umana”.
Riprendendo lucidità, nel ritorno a casa mi è parso inevitabile chiedermi, però:
“Ma chi hanno incontrato finora, queste persone, per avere avuto un’esperienza del genere: bestie feroci? gente esperta del lancio dello studente per le trecce?“
Ora: lasciando da parte questioni situate, quello stupore introiettato mi interessa. A cosa può essere legato?
Intanto, ad un comportamento che viene letto come straordinario, d’accordo. Attenzione: stra-ordinario è tutto ciò che “eccede i limiti del normale o del comune, con significati che si determinano nel senso dell’eccezionalità rispetto alla prassi consueta oppure nel senso di una rilevanza o esorbitanza quantitativamente o qualitativamente superlativa” (Devoto Oli, 2010). Non ha necessariamente un significato positivo.
Di converso, è uno sguardo che raramente mette meraviglia sul quotidiano.
Poi, ci sono altre 4 questioni connesse.
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1. Il ruolo della classe sociale
E’ molto poco tematizzato. Eppure lo stupore introiettato per come si comporta “normalmente” chi è in posizione di autorità (di potere e/o di fama) può essere letto anche in relazione alla CLASSE SOCIALE nella quale siamo natə.
Ne avevamo già parlato qui.
Non è che sei milionariǝ e non lo sai?
Moltissimo: potrebbe essere questo nesso a spiegarci che alcune delle difficoltà che viviamo - e che sono geneticamente legate alle neurodiversità, come nel caso dell’alta sensibilità - non sono aiutate da dove arriviamo.
La bassa classe sociale di provenienza può, infatti, contribuire a una serie di problemi.
Ti posiziona su bassi livelli di autostima personale.
Questo per via di difficoltà introiettate, episodi ricorrenti osservati nell’ambiente in cui sei cresciutə e uno stile educativo focalizzato sulle mancanze e sui deficit. Non sulle risorse - per dire.
Se sei l’unica persona working class in una stanza, a volte ti vergogni delle tue origini e dubiti sempre di quel che fai, perché le persone working class hanno poca autostima e molta empatia. Perché per arrivare dove sei alcuni non hanno fatto niente di eccezionale mentre tu hai dovuto scavalcare barriere di classe su barriere di classe.
Alberto Prunetti, Non è un pranzo di gala, 2022, p. 91
Influenza negativamente il tuo sguardo.
E’ il caso del class bias - cioè, quell’insieme di errori percettivi dovuti all’appartenenza ad una specifica classe sociale.
Un esempio?
Facile: chi arriva da bassa classe sociale spesso pensa che alcune professioni intellettuali siano per loro natura remunerativa e prestigiose (SPOILER: così non è, vedi il caso degli scrittori).
Occhio, però, anche le classi sociali alte hanno i loro class biases - tipo questi:
la povertà è un fallimento morale (Williams, 2009)
chi arriva da classi sociali basse è meno competente e meritevole di fiducia (Kraus et al., 2017).
Ma quando mai?
Può farti fare l’equazione SUCCESSO=MERITO.
Chi è in quella condizione, sa invece che il successo arriva tramite una serie di condizioni felici dovute all’incrocio di tanti fattori.
In occasione della discussione pubblica sulla sua malattia, Michela Murgia diceva qualcosa del tipo: “Troppo facile stracciarsi le vesti chiedendosi “perché a me?” solo quando ci capitano le peggio cose, tipo una malattia incurabile.
Dobbiamo chiedercelo anche quando le cose vanno bene: perché a me?
Invece, quello che ci arriva di positivo lo consideriamo dovuto.
Tutto il resto, no.”
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2. L’idealizzazione
Quando ci relazioniamo con questioni di mondi diversi, ne può conseguire una generale tendenza all’IDEALIZZAZIONE di chi detiene l’autorità. Di che cosa stiamo parlando?
L’idealizzazione è un meccanismo di difesa che mettiamo in campo quando dobbiamo regolare in qualche modo l’autostima. E’ quando attribuiamo a noi stessə o, come in questo caso, ad altrə, caratteristiche esageratamente positive. Come ogni meccanismo di difesa, serve “per affrontare le situazioni stressanti e mediare i conflitti che generano dallo scontro fra bisogni, impulsi, desideri e affetti da una parte e proibizioni interne e/o condizioni della realtà esterna dall’altra” (Fonte).
Idealizzare, quindi, non è nient’altro che difendersi da qualche paura. Dei meccanismi di difesa ne avevamo già parlato qui e qui. Se vuoi, approfondiremo ulteriormente.
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3. Ahinoi, le dinamiche di genere
Certo, di mezzo c’è anche una complessa relazione culturale fra maschile e femminile, su.
Come e in che modo se lo può permettere una donna di non essere carina? Magari di mostrarsi rude, non responsiva, o scostante? La sua è un’esperienza diversa da quella di un coetaneo maschio?
Lascio rispondere alla letteratura, questa volta.
Quando incominciai a scrivere me la trovai davanti alle prime parole. L’ombra delle sue ali cadeva sulla mia pagina; sentivo nella stanza il fruscio delle sue gonne. Non appena presi in mano la penna per recensire il romanzo di quell’uomo famoso, insomma, lei mi scivolò alle spalle sussurrandomi: “Mia cara, sei una ragazza giovane. Stai scrivendo di un libro che è stato scritto da un uomo. Sii comprensiva; sii tenera; lusinga, inganna, usa tutte le arti e le astuzie del nostro sesso. Non far mai capire che sai pensare con la tua testa. E soprattutto, sii pudica”. (…) Mi voltai e l’afferrai per la gola. Feci del mio meglio per ucciderla.
Virginia Woolf, Professioni per le donne, 1931, p. 352
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4. Infine, il MINORITY STRESS
Che noi si provenga da classi sociali basse o si sia donne, o ancora, che si appartenga a quelle che tecnicamente si chiamano minoranze, potremmo pensare che non ci è dovuto un comportamento carino perché siamo vittime di quello che si chiama minority stress.
Il Minority Stress Model (Meyer, 2003) nasce per capire come stanno le persone LGBTQIA+ ma poi negli anni è stato applicato anche ad altre persone. Si chiama minority stress quel complesso di condizioni che dipende da fattori stressanti interni o esterni che rendono ostile l’ambiente sociale in cui si vive.
E’ diverso dallo stress che provano tutti, poiché ha origine da stigmatizzazione e vittimizzazione date dall’appartenenza a gruppi minoritari.
Le persone in tale condizione possono subire due tipi di stress: esterni o distali e interni o prossimali. I primi riguardano l’impatto diretto che persone o istituzioni hanno sulla vittima (es. politiche o leggi discriminatorie, perdita del lavoro, condizioni di povertà), mentre i secondi derivano da un processo di internalizzazione dello stigma, sfociando in aspettative di rifiuto, in comportamenti evitanti o, nel caso di persone LGBTQIA+, nel mascheramento della propria identità sessuale come forma di protezione. Gli stressors distali provocano quelli prossimali, ed entrambi hanno effetti nocivi sulla salute mentale (Fonte).
Ne soffrono anche le persone altamente sensibili. Perché? Beh, perché rappresentano tecnicamente una minoranza della popolazione e sono più soggetti degli altri - anche per l’ostilità con cui sono progettati gli ambienti sociali, a misura dei normo-sensibili - a percepire stress interni o esterni.
Che si fa, allora?
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PS: Per finire il nostro discorso sulle persone di potere che non se la tirano, sappi poi che una recentissima meta-analisi (questa) ha dimostrato che le persone di classe sociale alta - bambini, adolescenti e adulti - in realtà sono più prosociali e tendono a dare di più, indipendentemente dalla cultura di riferimento.
Dirai: grazie tante.
Beh, non era scontato. Nel dibattito attuale, è come se si fosse segnato un punto a favore della “teoria basata sulle risorse” che sostiene che chi è stato in qualche modo deprivatə viene segnatə da questa esperienza nella sua bassa capacità di fare donazioni, di chiedere aiuto e di uscire al di fuori del proprio stretto giro.
Questo non impatta però sui livelli di empatia, che rimangono parecchio alti - se vieni da un’esperienza di bassa classe sociale (Fonte).
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Grazie per aver letto fino a qui! ;)
Per commenti, basta rispondere a questa mail – e sì, rispondo a tutte le mail.
M(ercoledì)arzia
PPS: Qui sotto trovi una frase-mantra che mi accompagna da un po’. Fanne buon uso.
E’ di Deborah Levy, scrittrice inglese, che si è trovata a cinquant’anni divorziata, con due figlie e senza casa. Tutt’altro che strappalacrime o piagnina, è una lettura illuminante adatta a chiunque si trovi ad affrontare un cambiamento - cioè, tutty.

Dalla lettura di Mercoledì.
La verità ti rende libera, ma prima ti fa incazzare.
La Steinem aveva raccontato di come, tempo prima, gli uomini le chiedessero se attirava l’attenzione dei media perché era bella. Una volta una donna dal pubblico rispose a quella domanda per lei:
“Abbiamo bisogno di qualcuno che sappia giocare e vincere, e che poi si alzi e dica che quella partita non conta niente”.
Deborah Levy, Bene immobile, 2021/2024, pp. 203-4